Rio De Janeiro.
Cidade maravilha, non penso esista altro aggettivo più appropriato per rendere giustizia a questa città dai colori pastello che nell’immaginario collettivo di tutto il mondo riassume il Brasile.
Nella mia personale classifica delle metropoli oggettivamente più belle e affascinanti divide il podio insieme a Roma e a Parigi, lasciando il podio per la competizione dei pesi medi a Venezia, Kathmandu e Marrakech.
L’allegria si respira nell’aria; dai campi da beach volley a Ipanema a quelli da beach soccer di Copacabana, da una passeggiata nel parco di Flamengo alla bellissima cima del Pan de Açucar, dall’affollatissimo Maracanà alle viuzze strette e colorate di Santa Teresa, tutto per me qua è sinonimo di energia. Perfino Cristo, rappresentato in tutto il mondo sofferente e inchiodato a una croce, qua è sereno e maestoso mentre con le sue grandissime braccia aperte dà il benvenuto dalla sua postazione privilegiata in cima alla spettacolare vetta del Corcovado.
Rio la si può riassumere facilmente anche attraverso la musica. Se Vienna è valzer, Berlino tecno, Ibiza chill out, Buenos Aires tango e Kingston reggae, bene, Rio è samba. Decisamente samba. Rio è samba tutte le ore eccetto due, quelle due ore nelle quali il sole, nascondendosi dietro le verdissime vette della baia, all’improvviso si trasforma in dolcissime note bossanova. Sì, Rio è anche bossanova.
Girovaghiamo per questa città senza meta come tonni persi nell’oceano, mischiati alle splendide ragazze con la pelle dal colore caffelatte con indosso tanga talmente risicati e rivelatori da meritarsi l’appellativo popolare di filo interdentale, contagiati dal ritmo suadente di questa città in pieno fermento pre-carnevalesco.
Sono confuso. Le due parti che compongono il mio cervello sono in questi giorni in continuo conflitto tra loro. All’angolo destro, forte del periodo appena trascorso e decisa a vendere cara la sua pelle risiede la parte razionale, quella ancora prepotentemente attaccata al lavoro, la banca, le scadenze e le fottutissime password (ma quante password servono per vivere?!?). All’angolo opposto, un po’ acciaccata ma comunque risoluta nel rivendicare il suo spazio, è seduta la parte emozionale, quella artistica e spensierata, quella alla quale in sordina e senza dirlo rivolgo il mio velato tifo.
La sfida è suggestiva, non mancano di certo i colpi bassi. L’esito è più volte messo in discussione dai continui richiami burocratici richiesti dal mondo esterno per poter in qualche modo tagliare nuovamente le radici che mi legano alla realtà stanziale dalla quale sto’ scappando, ma è proprio in cima al Pan de Açucar, seduto davanti a uno dei tramonti più suggestivi della mia vita, che mi rendo conto essere arrivata l’ora di girare pagina e tornare prepotente al nostro viaggio.
Lavoro, viaggio, click. Sposto nuovamente l’interruttore del mio cervello a settori sulla parte dedicata al viaggio, faccio di slancio tre passi di samba che assomigliano più a spasmi che ad altro, e sono di nuovo in pista, pronto a ballare fino all’alba le note suadenti di questa musica appena ricominciata.

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