Non sono un amante delle alternative. Il bivio lo soffro. Davanti al bivio ho sempre la masochistica tendenza a optare per la strada in salita, quella difficile, quella per la quale il raggiungimento del traguardo comporta fatica e sofferenza, con l’ingenua convinzione che solo in questo modo si possa, in seguito, godere realmente del risultato raggiunto. Quando poi dopo un considerevole lasso di tempo buttato a valutare i pro e i contro delle possibili alternative riesco a decidermi per una direzione, ho sempre la sgradevole sensazione di essermi lasciato alle spalle quella giusta, rimanendo con in bocca il gusto amaro di qualcosa di imperdibile lasciato nel cammino.
Arriviamo a Cartagena de Las Indias la mattina di un giorno qualunque, giorno che però per noi diventa all’improvviso speciale essendo la meta numero due dopo Ushuaia dell’ambizioso progetto di tornare in sella a Yellow in via san Giuliano 27 arrivandoci dal lato opposto, subito dopo aver girato il mondo.
In realtà sarebbe bastato passare davanti all’alimentari accanto al macellaio e infine girare in controsenso appena superata la ferramenta per un piccolo tratto di strada in divieto, ma come ho già scritto in precedenza, davanti al bivio la mia scelta si orienta sempre sull’alternativa più improbabile.
Ventiseimila chilometri di facce, lingue, climi, monete e paesaggi differenti ci separano da quell’ultimo saluto a Ivan dell’ostello di Santiago pieno di aspettative speranze e paure e, fermo davanti al semaforo del ponte che segna l’ingresso a Getsemani, quartiere storico della città vecchia di Cartagena, non posso esimermi dal dare un vigoroso cinque allo specchietto di Yellow, congratulandomi con lei per l’ulteriore bandierina che ci permette di puntare.
All’improvviso, mentre con un sorriso ebete sto ancora ripercorrendo mentalmente le tappe del viaggio appena compiuto accarezzando e coccolando il mio Ego a questo punto gigantesco, vengo risvegliato dai miei sogni di gloria da Esteban, un intraprendente ragazzo argentino in piedi al bordo della strada.
Accosto al lato del marciapiedi più affascinato dall’energia emanata dal soggetto che dalla reale voglia di rispondere alle curiose domande che mi vengono rivolte.
Gli racconto velocemente e a grandi linee la rotta intrapresa per arrivare in cima al continente sudamericano, omettendo volutamente particolari o aneddoti che mi possano far perdere il verde appena scattato. Poi, lasciandogli cordialmente lo spazio necessario per potersi presentare, di punto in bianco questo ragazzo all’apparenza solo “spettatore”, ribalta senza preavviso i ruoli e il mio ego, facendolo esplodere come bolla di sapone troppo gonfia in mille piccole gocce di ammirazione.
Mi svela, con la calma e la dovuta sicurezza di chi ne ha viste tante, che lui e la sua compagna Maria hanno appena attraccato la loro barca al molo in seguito a tre anni di navigazione intorno al mondo. Il rosso del semaforo è solo una banale scusa per tardare la ripartenza e continuare ad ascoltarlo.
Esteban è un ragazzo di corporatura normale, con lineamenti fin troppo comuni per averlo potuto notare in mezzo a una folla, solo i suoi folti capelli rossicci spiccano e si distinguono nell’insieme delle numerose chiome scure dando al suo volto un carattere distintivo e unico. Maria invece ha tratti somatici tipicamente latini e, al contrario di Esteban, l’inconfondibile accento, smascherano all’istante le sue origini argentine.
Pendo letteralmente dalle loro labbra, assimilando voracemente brevi immagini frammentate di episodi del loro viaggio e fantasticando avido sulle loro incredibili avventure. Come un tossico davanti a una partita di droga pura e cristallina mi abbandono inerme alla loro storia, e nonostante sia cosciente della precarietà del nostro incontro, li incalzo freneticamente per saperne ancora e continuare a raccontare.
Purtroppo il grosso camion alle mie spalle non sembra condividere il mio stesso entusiasmo. Con l’esagerato clacson di cui è in possesso e che mi suona all’improvviso arrogante nelle orecchie, intuisco che la posizione nella quale ho stazionato non è probabilmente la più idonea per continuare la conversazione, così, frustrato e a malincuore, sono costretto a ingranare la prima e a liberare velocemente il passo, cercando mentalmente di memorizzare il nome della barca e della marina nella quale sono attraccati gridati in lontananza da Maria.
Troviamo dimora nel quartiere di Bocagrande, un paio di chilometri fuori dal centro storico, affittando per qualche giorno un appartamento al terzo piano di un grosso edificio affacciato al mare alla stessa cifra richiesta per una squallida camera d’ostello. La vista sulla baia è eccezionale, e un piccolo tavolino di plastica situato nell’angolo più lontano del terrazzo e una bottiglia di ottimo Merlot cileno ci permettono di poter brindare al raggiungimento del nostro piccolo traguardo guardando questa splendida città spegnersi alle ultime luci del tramonto.
Il motivo della nostra permanenza a Cartagena diventa ben presto la nostra unica e ossessionante preoccupazione nonché compito giornaliero: cercare un’imbarcazione per trasbordarci sulle coste percorribili dell’altra America.
Vagliamo instancabilmente tutte le alternative possibili e immaginabili guadagnate sul campo, sempre attenti ai segnali e alle promesse che in lenta successione immancabilmente ci abbagliano.
Quella che doveva inizialmente essere una piacevole passeggiata si trasforma ben presto in un’interminabile odissea. Impietosamente veniamo catapultati davanti a un’innumerevole quantità di bivi da vagliare, strade da percorrere e alternative scartate e poi rimpiante.

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