Ci mettiamo in strada alle prime luci dell’alba con l’intenzione di evitare il traffico mattutino di coloro che, nervosi, si apprestano a raggiungere il proprio posto di lavoro, consapevoli del lungo e impegnativo tragitto da affrontare. La bella Cartagena, appannata dalla foschia e dallo smog dell’invadente camion che ci precede, lentamente si rimpicciolisce nel riflesso dello specchietto aggiustato lateralmente per cercare di omettere l’immagine dell’espressione che mi disegna il volto in una smorfia che conosco e non mi piace.
Le ruote girano dolorose su un selciato sassoso e sconnesso, amplificando esponenzialmente la sensazione di smarrimento e di ansia provocatomi dalla responsabilità di una decisione egoista. Mascherate avvisaglie di rimorso che non lascio trasparire logorano silenziosamente l’umore di una guida solitaria e impopolare.
L’impatto con Turbo, città meta e destino nella quale arriviamo sfiniti e affamati nelle ultime ore del pomeriggio poi non aiuta.
Case diroccate e senza intonaco ci accolgono all’entrata di questo piccolo paese con disprezzo, antipatiche, quasi a volerci chiedere il motivo della nostra presenza in una città nella quale il turismo non è né benvenuto, né contemplato.
Eh no, non si può certo dire che Dio sia stato di manica larga da queste parti.
Facciamo una preliminare ronda sulla disordinata via del porto, zigzagando in mezzo a marinai a torso nudo indaffarati a gettare gli ormeggi e mucchi di merce imballata accatastata in pile scomposte, nel tentativo di costruirci mentalmente un’idea del nemico da combattere. Poi scarichiamo i bagagli in un piccolo hotel davanti al molo consigliatoci telefonicamente da Fabio.
Rispondo svogliato alle amichevoli domande del simpatico proprietario John, seguendolo lungo uno stretto e scuro corridoio alla volta della camera assegnataci. Sono sfinito. Avrei solo bisogno di mettere il punto a questa interminabile giornata e andare a capo, consapevole del fatto che domani necessiterò di tutte le energie disponibili per risolvere una situazione alla quale ho fortemente aspirato, e che ora, tutto a un tratto, mi spaventa. Ma quando John all’improvviso si ferma davanti a una vecchia porta con la vernice scrostata e i cardini arrugginiti, il brutto presentimento che le sorprese di oggi non siano ancora finite diventa all’istante cruda realtà.
Squadro velocemente la cella nella quale abiteremo i prossimi giorni, affannato dal respiro sordo e pesante per una punizione che non sento meritare.
L’aria è umida, appiccicosa, stagnante, il materasso foderato di paglia dura è ricoperto da un lenzuolo logoro troppo piccolo per coprirlo interamente, il water è situato al posto del comodino affianco al letto, e la doccia non è altro che un tubo arrugginito al centro di una mattonella crepata in una parete priva di finestre. Il lento cigolio di un vecchio ventilatore a soffitto è la beffarda colonna sonora.
I giorni passano lenti, stanchi. La mattina la occupiamo a camminare testardamente avanti e indietro sul molo sorridendo a tutti i possibili proprietari d’imbarcazioni con la speranza di trovarne uno disposto a caricarci con la moto per raggiungere Capurganà, ultimo paesino colombiano prima del confine panamense. L’idea a questo punto è diventata quella di arrivare a Panama a tappe, di villaggio in villaggio, da isola a isola, pianificandone una alla volta, in una lenta ed estenuante staffetta che lentamente e senza pretese ci possa permettere di avvicinarci all’agognata meta.
Il pomeriggio invece lo passiamo stancamente a fare la spola tra un piccolo negozietto internet e il terrazzo in comune affacciato al molo del nostro scalcinato hotel in compagnia di John e del suo inseparabile amico Pedro, perdendoci affascinati nei suoi aneddoti da tombarolo di professione nel Darien.
Nel frattempo le provo tutte. Per non lasciare nulla d’intentato un paio di giornate le trascorro addirittura in moto con Ricardo, il proprietario del parcheggio dove riposa Yellow, disposto pur di guadagnare i tre dollari necessari per pagarsi la dose giornaliera di crack, a sballottolarmi in giro per la periferia del paese alla ricerca di una fantomatica imbarcazione che a suo dire mi porterebbe direttamente a Panama City.
Ma nulla sembra muoversi nella direzione auspicata.

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