Tequila.
Di tutta la svariata selezione di alcolici venduti a quantità industriali nelle mie attività, la tequila è forse l’unico prodotto dal quale non sono mai riuscito a guadagnare neppure un centesimo. Eppure tutte le settimane ne compriamo almeno mezza cassa.
Il problema è semplice. Essendo la tequila l’elemento base delle sbornie accelerate necessarie per riprendere il passo coi clienti accalcati sul bancone, per me e i colleghi con i quali affronto le serate, ha da tempo smesso di chiamarsi Cuervo. Per noi è semplicemente Josè, un caro amico al quale ci rivolgiamo quando pesantezza e insofferenza hanno bisogno di una spinta. Diciamo che per noi la tequila è un po’ come Wolf, risolve i problemi. E inevitabilmente il lunedì è tutto da rifare, compreso l’ordine della tequila che non ha portato in cassa nulla se non strazianti postumi e ricordi deboli e sfuocati.
La partenza da Città del Messico è veloce, molto più di quanto avessimo sperato. Il cuscinetto ordinato preventivamente da Lorenzo ha già dimora all’interno della ruota posteriore quando a mezzogiorno torniamo speranzosi al concessionario BMW della capitale messicana per trovare la convalescente Yellow. La osservo vanitosa pavoneggiarsi tutta lucida in piedi sul cavalletto centrale nel lato più esposto del salone, pronta e impaziente per solcare nuovamente le strade centroamericane.
Ancora una volta sono stato testimone di un piccolo miracolo, incredibilmente siamo di nuovo in pista.
Salutiamo con un abbraccio caloroso Lorenzo e Dolores ripromettendoci di tenerci in contatto nel proseguo dell’ancora lungo viaggio, poi, senza più nessun ripensamento, ripartiamo ansiosi in direzione della costa.
Lasciata Guadalajara alle spalle, in seguito a una notte finalmente spensierata, sulla strada per raggiungere Puerto Vallarta all’improvviso sono attratto da un cartello che evidentemente parla la mia lingua.
Tequila 26.809 abitanti.
Come non decidere di farle visita per rendere omaggio a un luogo che ha dato i natali al nostro caro amico don Josè? Sarebbe come negare a un prete in viaggio in Israele la visita a Nazareth, mi giustifico imboccando l’uscita laterale indicata dalla freccia per raggiungere il piccolo paesino.
Parcheggiamo la moto in calle Sauza rapiti dal piccolo cartello scritto a mano recante un invito a una raffinata e alquanto appetibile degustazione di tequila, ignari del fatto che prima di poter gustare il famoso distillato dobbiamo assistere a una lunga e meticolosa spiegazione sul processo di distillazione.
I miei occhi intanto come piccole farfalle si posano sulle mille etichette colorate attaccate alle bottiglie in fila indiana sulle mensole, indugiando per educazione reverenziale su quelle anziane dal colore un po’ più ambrato e invecchiato.
Il sapore poi al palato è una delizia. Se le avessi bevute a occhi chiusi onestamente non avrei mai potuto indovinare essere tequila.
Tra le tante ne scegliamo una dalla forma accattivante e dell’annata di Savannah, con la promessa di lasciare integro il sigillo che ne garantisce la verginità almeno fino a quando non potremo festeggiare il nostro arrivo trionfale all’estremo nord del continente americano.
Per la cronaca, nella tasca le mie dita sono incrociate.

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