Ci svegliamo quando è già, ancora, giorno. In questo periodo dell’anno il buio non va per la maggiore, anzi, in questi luoghi pare essere decisamente giudicato fuori moda. D’altronde al nostro risveglio il sole non si è mosso neppure di un centimetro, manifestando tutta la sua pigrizia nel cammino impercettibile al quale si è dedicato, e nei flebili raggi portatori di luce interminabile, ma assolutamente, privi di calore.
Oggi, influenzati da questa febbre aurifera fluttuante nell’aria, vogliamo ostinatamente tentare la fortuna. E così, abbandonando la tenda nella sua piazzola riservata per due giorni, saliamo in sella a Yellow e ci dirigiamo lungo il sentiero che parte dopo il terzo bivio sulla desta e s’inerpica sulla roccia costeggiando per alcuni tratti il fiume. “Lì c’è un buon punto”, ci confida la nostra vicina già inquilina del campeggio da tre mesi strizzandoci l’occhio.
Nel luogo consigliato non siamo i primi ad arrivare. Seduti in equilibrio su due pietre posizionate in mezzo all’acqua, sono presenti due signori con stivali di gomma e cappello da cow boy intenti a setacciare il fondale con l’apposito piatto, girandolo in continuazione con l’esperienza consumata di chi non lo fa per gioco, concentrati, non alzando neppure lo sguardo al nostro arrivo.
Poco più in là, due genitori seduti su una grande pietra affianco all’argine al contrario, osservano la figlia divertirsi con il suo piccolo piattino ai bordi del ruscello.
Io e Savannah purtroppo non siamo attrezzati al meglio, o per dirla tutta, non siamo attrezzati affatto. Non disponiamo di stivali impermeabili, e siamo sprovvisti pure del piatto sopra il quale far ruotare il fango alla ricerca del metallo tanto ambito.
Ci limitiamo a raspare un po’ di terriccio con le mani dal fondale, nell’abbagliante speranza di poter sbattere con le dita in un’enorme pepita con la quale terminare il viaggio da signori, cercando di trovare nel mucchio di fanghiglia qualcosa di giallo e luccicante da poterci illudere di diventare improvvisamente facoltosi. “Gratta e vinci”, dico a Savannah già demotivata mentre si accende una sigaretta abbandonandomi nel fiume.
Raspo terra per circa un’oretta, ripensando a quante persone prima di me l’hanno già fatto con fortune alterne, ma infine scettico e disanimato pure io, decido di lasciar perdere e tornare mesto sui miei passi in direzione di Savannah.
“Un’altra”, grida all’improvviso la bambina seduta sul mio sasso sventolando una piccola pepita pescata esattamente nel punto in cui cercavo io. “È la seconda che trova”, esclamano i genitori mostrandoci la prima leggermente più grande.
Malgrado sia una bambina, affermare di essere contento per lei sarebbe decisamente mentire. Mi rode di brutto, cazzo. Nonostante ricchi non saremmo certo diventati, un pieno di benzina o una cena al ristorante guadagnata in questo modo non mi sarebbe affatto dispiaciuta.
I due giorni di vacanza dal viaggio benevolmente concessi a noi stessi sono comunque giunti al termine.
Abbandoniamo questa terra ricca di sogni e aspettative carichi e discretamente riposati, dirigendoci gonfi di soddisfazione in direzione della seconda fine del mondo alla quale assisteremo nel solo breve giro di quest’anno. Oggi passeremo il confine con l’Alaska.
Al casello, se così si può chiamare il baracchino di legno nel quale a fatica s’interessano dei nostri documenti, ci arriviamo prima di mezzogiorno.

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