Da East Timor non so cosa aspettarmi. Le recenti vicissitudini politiche di questo piccolo Stato legittimato come tale solo da una decina d’anni, fanno di Timor un Paese ancora in evidente transizione, rendendo per me difficile la costruzione mentale di un modello riconosciuto da poter catalogare.
Identificato in passato come Timor portoghese, il Paese è stato una colonia del Portogallo fino al 1975. L'indipendenza fu dichiarata unilateralmente lo stesso anno a opera di fazioni filo-comuniste. I timori però di avere un governo comunista indipendente all’interno dell’arcipelago indonesiano nelle fasi più concitate della guerra fredda, portò l’Indonesia pilotata e supportata dai governi occidentali a invadere Timor Est su vasta scala. Gli anni successivi non furono certo anni di stabilità. Dal giorno stesso nel quale Timor est divenne una provincia dell’Indonesia, cominciarono scontri e massacri tra l’esercito clandestino degli indipendentisti, e i militari indonesiani coadiuvati dalle milizie anti indipendentiste. Chi pagò, come sempre accade nelle guerre, furono in gran parte i civili, massacrati in vergognose e ripetute stragi.
Dal 2002 Timor Est, in seguito a referendum popolare, è diventata indipendente, anche se ancora non è certo un posto nel quale regna la serenità. Tuttora la cronaca politica racconta infatti di gravissimi episodi di terrorismo eversivo e tumulti insurrezionali, dai quali spicca per crudezza e gravità il recente tentato assassinio ai danni del presidente da parte di un gruppo di miliari ribelli nel 2008, conclusosi per altro con tanta paura e due ferite da arma da fuoco non mortali.
Detto questo noi sbarchiamo comunque a Dili senza alcun timore.
L’aria è pesante. Boccheggio affannato alla ricerca di ossigeno, sfinito dalla stanchezza per la notte trascorsa a combattere con il vicino per la conquista del poggiolo sulle ridotte poltroncine della classe economica, e della densa umidità premonitrice di un caldo al quale non siamo preparati.
Ci incamminiamo straniti attraverso un corridoio povero seguendo la coda di una fila silenziosa diretta al banchetto dei visti, osservando curiosi l’insegna “Duty free” riportata a mano sulle cassette della frutta ricolme di sigarette importate.
È ancora mattina presto quando mettiamo il naso fuori dall’aeroporto, ma già da ora s’intuisce chiaramente che da queste parti appena sorgerà il sole farà decisamente caldo.
Il conducente di una vecchia Ford arrugginita ci fa cenno di seguirlo e caricare gli zaini nel bagagliaio posteriore della sua vettura, slegando uno spago allacciato a un inquietante foro tondo presente sul portello ammaccato e al supporto della targa. Non abbiamo un indirizzo preciso verso il quale dirigerci, d’altronde il nostro progetto prevede di rimanere qua a Dili solo qualche giorno in attesa di sdoganare Yellow e ripartire. Così ci facciamo trasportare passivamente nel centro storico del paese, fiduciosi di trovare una sistemazione provvisoria con la quale poter barattare i problemi e la stanchezza esportati dall’Australia, con un bagno pulito e un soffice materasso.

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