È l’alba. Savannah sta ancora dormendo rannicchiata nella sua parte di letto quando decido di alzarmi per andare in bagno. Fuori è ancora buio, ma il dolce aroma del caffè proveniente dalla cucina in fondo al corridoio rivela già esserci qualche forma di vita attiva a quest’ora del mattino.
“È ora di alzarsi”, le sussurro nell’orecchio strappandola da un sogno al quale non vorrebbe ancora rinunciare, stampandole sul volto quell’espressione tipica di chi non ha la più pallida idea di cosa stia succedendo.
Le do una carezza sulla guancia per rassicurarla, poi senza fare troppo rumore mi allontano per vestirmi. Lei si gira per un attimo dall’altra parte, quasi volesse sfuggire all’incombenza della nostra imminente maratona, poi, senza bisogno di dirle altro, mi rivolge un enorme sbadiglio, interpretabile indubbiamente più come un urlo silenzioso invocante del caffè che un riflesso incondizionato volto a ossigenare il sangue.
Pochi minuti più tardi siamo già seduti solitari al tavolo delle colazioni a goderci l’atmosfera calda e accogliente della cucina a nostra disposizione.
“Non c’è nulla di più familiare e rassicurante del gorgoglio del caffè provenire dal fornello di una casa”, dico a Savannah nel tentativo di forzare un dialogo privo di repliche e soddisfazione, “d’altronde per riempire una stanza basta una caffettiera sul fuoco”, aggiungo filosofico.
Savannah grugnisce e sprofonda la testa nella tazza. No, decisamente non è ancora pronta per un dialogo.
Al contrario io oggi sono di buon umore. L’idea di stampare con il secondo timbro un passaporto ancora troppo vergine per darmi il gusto di sfogliarlo fiero in cerca di ricordi, mi regala una strana adrenalina difficile da contenere. La nostra meta per la giornata si chiama Argentina, e onestamente l’idea di attaccare il secondo adesivo sulla borsa laterale di Yellow è molto più efficace della poca caffeina presente nella tazza che rigiro tra le mani.
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