Il ritorno a Delhi è tutt’altro che una passeggiata. All’improvviso una nuvola oscura e minacciosa rabbuia meschina il sereno clima di un’andatura liscia e spensierata, dando il via a un’infinita odissea alla quale riusciremo a mettere il punto solo circa un mese più tardi arrivati a Teheran.
Ma procediamo con calma, passo dopo passo.
Percorrendo tranquilli un lungo rettilineo senza ostacoli né traffico, tirando la leva della frizione per inserire una marcia comoda, avverto una lieve differenza di pressione. Non ne sono sicuro, la differenza è veramente impercettibile. Ma ormai Yellow e io è tanto tempo nel quale viviamo in simbiosi, parti integranti di un unico corpo scricchiolante e acciaccato, e nonostante provi a fingere di essermi sbagliato, la possibilità concreta che la nostra compagna stia cercando nuovamente un dialogo è decisamente reale.
Alzo il volume della musica al massimo, come se le note bossanova di Marisa Monte suonate forte nel cervello mi aiutassero nel puerile tentativo di eludere un problema al quale non voglio ancora dare credito.
Intanto continuiamo ad archiviare chilometri evitando con cura di toccare la frizione, temporeggiando, lasciando fiducioso a Yellow il tempo necessario di riflettere sul suo imminente tradimento e perché no, pure di pentirsi.
Al semaforo la resa dei conti. Ora la frizione stacca ancora meno. In realtà una vaga idea di ciò che Yellow sta cercando di comunicarmi me la sono fatta. Il liquido della frizione non riesce a spingere il pistone, il quale a sua volta è impossibilitato nel suo ingrato compito di alternare le corone, ci deve essere una perdita da qualche parte, forse il paraolio.
“Mancano ancora cento chilometri a Nuova Delhi”, dico a Savannah sempre più allarmato, “dobbiamo cercare di arrivare almeno al nostro albergo, poi una soluzione con calma me la invento”.

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